“Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che destino avrò” non è soltanto l’amabile refrain di chi, innamorato, attende di essere ricambiato, di vedere il futuro e oltre, ma anche il punto interrogativo, l’inesorabile punto interrogativo di tanti giovani davanti agli esami, sperando che siano porta d’accesso a un futuro più roseo. Il foglio è bianco e va riempito oggi e fino all’ultimo dei giorni, che sono contati, ha detto qualcuno. Gli esami, ricorda Eduardo, non finiscono mai e quelli più difficili si tengono fuori dalle aule scolastiche. Il tema non è di matematica o di italiano, di latino o di greco. Il tema, oggi più di ieri, è farcela in quella che Debord intuiva essere “la società dello spettacolo” e Vargas Llosa chiama “la civiltà dello spettacolo”. Fuori c’è lo spettacolo, ma guai a ritenere che il destino o il sogno, per dirla con Crozza-Briatore, dipendano dalle luci della ribalta. Quelle si accendono e si spengono. Evaporano. E quando evaporano sono dolori. Leopardi invece resta, come resta la vita. Perché Leopardi è la vita. Come restano Seneca e Montaigne, Shakespeare e Machiavelli, Ungaretti e Montale, Petrarca e Pirandello. Come resta Dante, il più grande, l’immenso, l’inarrivabile. Lo dice persino Benigni, l’uomo dello spettacolo per eccellenza. Quanti giovani, oggi, presi dallo sconforto, bombardati dalle notizie su una crisi epocale senza fine, si chiedono: “A che serve Dante? Che ci faccio con Dante?”. Un altro punto interrogativo. Sarà il tempo a rispondere. E sarà una risposta più precisa, più vera, di quella della zingara.
Davide D’Alessandro