Ci sono momenti di una storia locale che non possono essere dimenticati. Come la frana che colpì parte del territorio vastese nel 1956. Un intero quartiere, in quel giorno, scomparve e con esso le tradizioni, i colori, il calore dei suoi abitanti, pescatori del sud Italia. La forza subdola della natura manifestò all’inizio la sua violenza con un piccola crepa sul muro delle Lame che divenne pian piano spaccatura e ferita sempre più profonda che polverizzò la parete, facendo scivolare inesorabilmente edifici, abitazioni e pezzi di vita. Uomini fino ad allora abituati a lottare contro il mare, aspirando quotidianamente ad un ritorno a terra come ad un luogo sicuro, si sono trovati a subire il tradimento della terra, a conferma ulteriore del tragico e antico bifrontismo della Natura madre e matrigna.
È così che una realtà a colori, fatta di pennellate compatte e fredde come il lavoro duro, continuo, ma anche di tinte più tenui e calde, come un sentimento religioso radicato e rassicurante e un ambiente familiare costruito su rapporti e valori autentici, acquista improvvisamente il grigiore della polvere sollevata da una terra impazzita. L’evento tragico non fu fortunatamente catastrofico, non vi sono stati morti, tutto accadde lentamente senza violare le persone. E poi Vasto conosceva.
È una storia fatta anche di frane, quella del territorio vastese, a partire dal periodo romano passando attraverso il Medioevo fino a giungere all’Ottocento e al Novecento. Tra il 1955 e il 1956, ad antichi fattori naturali di tipo geologico, si aggiungono quelli contingenti, come le piogge insistenti e un’abbondantissima nevicata. La paura cresceva per una terra non più amica. La comunità di Porta Palazzo, unita nel suo sentimento d’angoscia, inalbera il Legno della croce e si stringe con uno sforzo di dignitosa accettazione dell’evento che si fa di giorno in giorno più allarmante. Le evacuazioni di abitazioni e di edifici si susseguono senza sosta e si giunge alla data del 22 febbraio del 1956, giorno dei primi crolli. Tutti gli abitanti del quartiere collaborano al trasferimento dei beni di quella comunità semplice e devota: i quadri, gli arredi sacri e le statue della chiesa di San Pietro sono spostati in altre chiese e abitazioni private. Questo accadeva sotto lo sguardo accorto e paterno di un uomo come don Romeo Rucci, caparbio e tenace nell’andare avanti e nel conservare lo spirito cristiano della sua parrocchia. Nei mesi successivi, i crolli si verificano quasi quotidianamente, fino al boato del 22 agosto del 1956 che strappa uno sguardo desolato e impotente a chi dalla Marina osserva la città alta: via Adriatica stava sprofondando e trascinava con sé il palazzo delle poste, il palazzo Bernardini e quello dei baroni Cardone.
Anche la sede delle Figlie della Croce che ospitava una rinomata scuola subiva violenti danneggiamenti. La suggestiva chiesa di San Pietro si salvò per essere abbattuta, poi, qualche anno più tardi, nel 1959, per scelte sicuramente discutibili. Si preservò solo la facciata, volto e simbolo dolente dell’evento frana. Il 21 maggio del 1960 don Romeo morì, quasi non sostenesse la vista di quella realtà senza la sua chiesa. Nello scorcio di tempo dal ’56 al ’60 l’atmosfera di un’intera area abitata cambiò definitivamente, insieme alle attività, alle relazioni e ai tanti momenti di vita. Quell’atmosfera è rimasta come prezioso ricordo nella mente di chi è sopravvissuto al proprio mondo, al proprio quartiere, alla propria casa e di chi a sua volta saprà farsi partecipe di quel ricordo, guardando con gli occhi dell’anima i bambini di quel tempo lontano arrampicati a giocare sul Muro delle Lame.
Giuseppe Catania