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La dignità di morire: al Palazzo d’Avalos si è parlato di bioetica

È stato davvero un momento di grande riflessione quello vissuto ieri pomeriggio nella Pinacoteca di Palazzo d’Avalos, dove tanta gente è affluita per assistere alla tavola rotonda organizzata con luminari della diritto e della bioetica dal Partito Democratico vastese. A fare gli onori di casa il coordinatore locale Antonio Del Casale, l’on. Maria Amato, e il sindaco di Vasto Luciano Lapenna. Il titolo dell’incontro, La dignità di morire, avrebbe potuto anche spaventare e, invece, ci siamo trovati di fronte ad un appuntamento di grande rilievo che ha saputo affrontare argomenti scottanti, come quelli del fine della vita e della libertà di scelta di fronte a situazioni gravose, sollevando questioni che sono alla base del dibattito etico da molti anni.

Il primo a prendere la parola è stato Stefano Canestrari, ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna e membro della Consulta bioetica Nazionale, ha posto subito l’accento sul fatto che quelli della tavola rotonda “sono temi che vanno affrontati con molta cura”, evidenziando una “discrasia tra il Codice penale datato 1930, in cui la vita dell’uomo non appartiene né a Dio né al singolo cittadino ma allo Stato, e la Carta Costituzionale del 1948 che ci consente di avere alcuni punti che dovrebbero essere fermi”. Per definire i punti Canestrari ha portato una distinzione tra vari livelli di intervento sulle quali il dibattito etico è aperto, ovvero:

I livello: “il rifiuto delle cure sanitarie da parte di chi è capace di intendere e volere che va considerato un diritto pieno, il che non vuol dire lasciare solo il paziente. Infatti Si deve aver paura dell’accanimento terapeutico, ma anche dell’abbandono terapeutico”.

II livello: “la rinuncia al trattamento terapeutico da parte di chi è capace di intendere e volere, ma la cui vita dipende dall’utilizzo di macchinari (ed ha citato il noto caso di Piergiorgio Welby). Un caso per il quale l’Art. 32 comma 2 della Costituzione sancisce il diritto all’intangibilità e all’inviolabilità del corpo di un individuo, il che non vuol dire il diritto a morire che non è previsto dalla Carta costituzionale”. Il docente ha comunque sottolineato che “è giusto garantire al medico il diritto di astensione”.

III livello: “la rinuncia di soggetto incapace di intendere e volere (un chiaro riferimento al caso di Eluana Englaro) per il quale sarebbe auspicabile giungere a definire una legge che consenta di estendere il diritto all’inviolabilità dando voce al cittadino prima che si giunga a quello stato, ovvero una nuova legge sul testamento biologico che arrivi a riconoscere la libertà di dire se restare o meno in quello stato”. Canestrari ha ricordato come “il disegno di legge Calabrò formulava la possibilità di direttive anticipate, ma escludeva il caso dello stato vegetativo persistente. Inoltre le norme non possono non prevedere le modalità di revoca delle direttive anticipate. Sì anche all’autodeterminazione dei malati di mente e di Alzheimer”.

IV livello: “l’eventuale legalizzazione dei suicidi medicalmente assistiti o eutanasia legale (come nel caso di Lucio Magri) che secondo il Codice penale (che non norma in tali casi) e la Carta costituzionale potrebbe essere interpretato come atto di libertà e che invece non è né un delitto né, tantomeno, un diritto.

Canestrari ha chiuso il suo intervento con un accenno alla medicina Palliativa immediatamente raccolto dalla Dott.ssa Amato, che ha evidenziato la resistenza di molti medici ad utilizzare farmaci a basi di derivati dell’oppio (che sono alla base di molti trattamenti nella terapia del dolore). “Le cure palliative vengono fuori da una visione pietosa – ha detto – ora c’è il tentativo di dare garanzia di una buona qualità della vita restante grazie a quella che è una vera branca della medicina”, che lotta contro il dolore che il dirigente medico ha definito “un coccodrillo”.

Ferdinando Cancelli palliativista, scrittore, editorialista per l’Osservatore Romano, ha subito evidenziato come la medicina palliativa rappresenti una terza via tra l’accanimento terapeutico, “che andrebbe sempre evitato”, e il suicidio assistito.

Quindi si è soffermato sul ruolo del medico palliativista che “passa molto tempo con i malati e la famiglia per cercare una strada adeguata secondo un approccio olistico, ovvero globale. L’uso farmacologico è piuttosto semplice; quel che è complesso, invece, è il trattamento degli effetti collaterali sul corpo, ma anche quelli psichici e sociali”.

Anch’egli ha ribadito l’opportunità di lasciare al medico la possibilità di dire no di fronte a determinate richieste ed è entrato anch’egli nel discorso sulle direttive anticipate raccontando le proprie esperienze in Francia e in Svizzera, realtà nelle quali ha di fatto potuto constatare come “le richieste di morte anticipata sono numerose nei reparti di Medicina generale e molto basse in quelli di Medicina palliativa”. “Le direttive anticipate possono aiutare molto – ha aggiunto – ma possono non essere risolutive anche perché sono difficili tecnicamente da scrivere”.

A chiudere la serie di interventi l’atteso intervento di Beppino Englaro, tra l’altro persona innamoratissima della città di Vasto in cui dal 2000 abitualmente trascorre un periodo di vacanza. Un intervento per alcuni versi illuminante, nel senso che ha posto sul tavolo questioni troppo spesso fraintese e troppo spesso sottovalutate. Ripercorrendo le varie fasi della vicenda di Eluana, vittima di un incidente stradale a 21 anni che l’ha ridotta in stato vegetativo persistente, Beppino ne ha ricordato come già da quando aveva 14 anni sua figlia avesse portato in casa temi quali la vita, la morte, la dignità, la libertà, arrivando a definire come “il suo tabù non era la morte, ma la profanazione del suo corpo”.

E poi giù con le problematiche affrontate in 15 anni e 9 mesi, a cominciare dall’inizio quando “noi cercavamo un dialogo con i medici, ma loro non capivano. Il fatto che un individuo terzo potesse disporre del corpo e della salute di un altro per noi era inaccettabile”, prima di sollevare la questione conflittuale tra “quelli che erano i diritti dei medici e la mancanza di diritti dei famigliari. Di fronte alla cultura della vita evidenziata dal medico noi abbiamo parlato della cultura della libertà”.

Ed è su questi principi fondamentali che si è snodata la lunga e dura battaglia della famiglia Englaro dei Comitati etici e nelle aule di giustizia fino ai contatti con il presidente della Consulta di Bioetica di Milano che ha segnato una svolta dinanzi a una società apparsa sorda ai richiami di quella vicenda e di chi cercava delle risposte.

Beppino ha ricordato la Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina di Oviedo controfirmata anche dall’Italia, che imponeva come “qualunque trattamento su persone incapaci di intendere e di volere ha bisogno di un’autorizzazione”, prima di citare la sentenza del Consiglio di Stato che ha messo fine alla vicenda Eluana che cita “l’autodeterminazione terapeutica non può incontrare un limite neanche se comporta la morte. Finita l’emergenza deve aprirsi il dialogo medico paziente-famiglia”. Englaro, però, ha chiarito come bisogna fare una netta distinzione tra “il diritto di morire, che non ha ragione d’essere, e il diritto di essere lasciato morire, ovvero lasciare che la morte accada. In certe situazioni della vita – ha aggiunto citando Leonardo Sciascia – non è la speranza l’ultima a morire, ma morire l’ultima speranza”.

Di impatto la chiusura del suo racconto: “Eluana non è stata torturata né c’è stato accanimento terapeutico, ma ha subito una violenza terapeutica”.

Tra le mani il volume “La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno Stato di diritto” che ha dedicato “alla Magistratura che dinanzi al cittadino comune non ha dato ascolto a nessun potere”.

Luigi Spadaccini
(spadaccini.luigi@alice.it)

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