Banner Top
Banner Top

Il dibattito sul fine vita in Olanda

L’eutanasia è una problematica etica di grande attualità, che negli ultimi anni ha assunto una importanza preminente  nella nostra società. Poiché è oggetto di accesi dibattiti anche in Italia, pubblichiamo volentieri un contributo sulla questione del dott. Luca Valerio, medico che svolge la sua professione in Olanda.

Da sempre all’avanguardia nel campo della bioetica, i Paesi Bassi stanno vivendo un acceso dibattito sul fine vita. Può sembrare stupefacente, e per alcuni preoccupante, che qui qualcuno ottenga l’eutanasia “semplicemente” perché è cieco. Ma la cecità è davvero paragonabile a un cancro terminale? Ciò che importa non è la specifica natura della malattia né la reazione della maggioranza degli altri pazienti con la stessa diagnosi, ma la situazione del paziente individuale.

L’eutanasia nei Paesi Bassi è regolata da una procedura organizzata nei minimi dettagli. La legge specifica che è possibile nei casi di “sofferenza intollerabile e senza prospettive”. Il medico di famiglia od ospedaliero che riceve una richiesta di eutanasia può consultare medici specializzatisi nella gestione della “fine vita” (i cosiddetti SCEN-artsen, laddove SCEN sta per Steun en Consultatie bij Euthanasie in Nederland, supporto e consulenza per l’eutanasia nei Paesi Bassi) o consulenti delle “cliniche di fine vita” (levenseindekliniek). E tutti i casi vengono valutati a posteriori da Commissioni Regionali di Valutazione dell’Eutanasia (Regionale Toetsingscommissie Euthanasie). Negli ultimi anni, tuttavia, una serie di casi specifici al limite delle disposizioni legislative ha riacceso il dibattito sul perché e il come dell’eutanasia.

Eutanasia per una malattia o per un paziente?

È il 2013. Una donna, ultrasessantenne, è ormai quasi cieca dopo progressiva perdita della capacità visiva. Rifiuta ogni forma di supporto. Vuole solo poter vedere di nuovo. Quando diventa chiaro che la situazione non può che peggiorare, iniziano i tentativi di suicidio, fino alla richiesta dell’eutanasia al medico di famiglia. Quest’ultimo accetta, ma rifiuta di eseguirla lui stesso. Lo specialista e il consulente della clinica di fine vita giungono alla stessa conclusione: la sofferenza è vissuta come intollerabile e senza prospettiva. L’eutanasia, dunque, procede. E la commissione di valutazione ritiene i requisiti di cautela soddisfatti.

Può sembrare stupefacente e per alcuni preoccupante che qualcuno ottenga l’eutanasia “semplicemente” perché è cieco. Dopotutto, cos’è la cecità al confronto con un cancro incurabile e terminale? Questo, sí, sembra una causa più accettabile per l’eutanasia: la sofferenza (fisica, psicologica, e quotidiana) può essere “intollerabile”, e l’”assenza di prospettive” ovvia. Come conciliare le due situazioni?

Numerosi ciechi hanno un’esistenza più che gratificante. Alcuni sono addirittura persone di grande successo, come il cantante Stevie Wonder (o il comico olandese Vincent Bijlo, sconosciuto all’estero ma il cui nome ricorre spesso nel dibattito nazionale). E la vita quotidiana è ben gestibile: un cieco può camminare con un cane di accompagnamento, leggere con il braille o ascoltare audio libri, usare il computer con i software di riconoscimento vocale. Questa eutanasia si è basata forse su ragioni triviali? O era perfettamente giustificata – e la decisione implica, quindi, che la vita di ogni cieco non vale la pena di essere vissuta?

Anch’essi inizialmente scettici, il medico e il consulente hanno cambiato idea dopo aver incontrato la paziente. E anche la commissione di valutazione non ha preso le loro opinioni per oro colato, ma ha interpellato nuovamente tutti gli attori coinvolti per accertare non solo la natura della sofferenza, ma anche l’assenza di alternative. La paziente rifiutava ogni tipo di supporto e terapia proprio perché era la perdita della visione stessa a causare la sofferenza, e non i disagi connessi – che avrebbero potuto essere alleviati in qualche modo. Per esempio, da persona che amava prendere gran cura di sé, non sopportava il non poter vedere se c’erano macchie sui propri vestiti. Le creative soluzioni ideate per anni dal medico di famiglia erano fallite tutte, e uno psichiatra chiamato in consulenza aveva escluso ogni forma di depressione o diminuita capacità di intendere volere e identificato al più un disturbo di adattamento – la paziente non poteva accettare la cecità.

Ma la cecità è davvero paragonabile a un cancro terminale? Nel 2011, il 6% dei pazienti di cancro morti in Olanda lo hanno fatto tramite eutanasia. Una piccola minoranza, dunque. A parte i casi la cui richiesta di eutanasia è stata rifiutata, la maggioranza di questi pazienti voleva dunque vivere. Anche in circostanze che per altri sarebbero intollerabili e senza prospettive.

La conclusione, si è ragionato, è che coloro che soffrono in modo intollerabile e senza prospettive lo fanno a causa del loro rapporto con le loro specifiche circostanze. Poco importa che le stesse circostanze in altre persone con la stessa malattia non condurrebbero alla stessa sofferenza. Laddove la maggior parte delle persone si “abitua” alla cecità, alla sordità, alla vedovanza o a una sedia a rotelle, alcuni non ci riescono. Come nel caso della donna cieca. Che quindi non è diverso da quello della minoranza di pazienti di cancro che, a differenza della maggioranza, non riescono ad accettare la loro situazione (van de Vathorst, 2014).

La causa della diversa percezione dei due casi risiede forse nella natura terminale del cancro: se il paziente morirà nel breve termine, per un medico è meno difficile accettare l’eutanasia, che viene vista in questi casi più come un supporto alla (inevitabile) conclusione della vita. Il paradosso sarebbe dunque che anche una malattia non terminale può causare una sofferenza intollerabile e senza prospettive.

In questi casi non importano né la specifica natura della malattia né la reazione della maggioranza degli altri pazienti con la stessa diagnosi, ma la situazione del paziente individuale. L’argomento di Stevie Wonder, in questa prospettiva, non regge: per avere uno Stevie Wonder non basta essere ciechi e saper cantare, ma anche essere in grado di andare avanti con la propria vita nelle proprie specifiche circostanze.

Fra desiderio di morte e malattia insopportabile

Un problema simile pone da anni la possibilità di eutanasia per i pazienti psichiatrici. La sola condizione era che sia esclusa una diminuita capacità di intendere e di volere. Solo poche settimane fa, però, l’associazione nazionale dei medici KNMG ha chiesto al Parlamento che siano introdotte ulteriori precauzioni per accertare che il desiderio di morte non sia una manifestazione della malattia stessa. Per esempio, la consulenza di almeno due ulteriori medici oltre al medico di famiglia (uno psichiatra e uno SCEN-arts) (KNMG Position Paper, 2014; Parlamento Olandese, Position Paper, 2014). Già dal 2012, le commissioni regionali di valutazione hanno mostrato con i loro pronunciamenti di essersi adeguate all’opinione della KNMG.

L’esempio estremo, però, è quello di chi desidera morire pur non avendo alcuna malattia diagnosticata. In questo caso, la KNMG ha emanato nel 2011 linee guida addirittura più restrittive della legge nazionale: laddove questa si limita alla ”sofferenza intollerabile e senza prospettive”, i medici olandesi hanno aggiunto “è e resta un requisito assoluto che la valutazione della sofferenza nel quadro di una richiesta di fine vita sia sempre basata anche su un fondamento medico”.

La contraddizione fra legge e pratica su questo punto sta causando non pochi problemi. UnoSCEN-arts ha denunciato il caso di un uomo che sin dall’età di 6 anni aveva manifestato desiderio di morte. Attenuatosi durante la relazione con la moglie, questo desiderio ricompare alla morte di quest’ultima l’anno scorso (tramite eutanasia per cancro terminale). Ritiratosi a vivere nella più completa solitudine, l’uomo chiede ripetutamente l’eutanasia al medico di famiglia, e racconta alloSCEN-arts fatto intervenire i falliti tentativi di ricominciare da vedovo.

Il medico di famiglia consulta anche uno psichiatra con la domanda: ci sono segni di una depressione (curabile, dunque) o di una diminuita capacità di intendere o volere? E la risposta dello psichiatra non lascia dubbi: nessun segno di entrambe, ma la possibillità di una sindrome di Asperger – tipica di molti individui con spiccata intelligenza ma gravi e durevoli difficoltà sociali.

SCEN-arts e medico di famiglia rimangono quindi con il dilemma. La “sofferenza intollerabile e senza prospettive” c’è, ma in assenza di una diagnosi medica la commissione di valutazione si esprimerà negativamente. La soluzione? Dopo settimane di esitazione, si decide di consultare lo psichiatra di nuovo con una domanda diversa – se la “sofferenza intollerabile” possa essere causata dalla sindrome di Asperger. Lo psichiatra lo dimostra con chiarezza, l’eutanasia ha luogo, e la commissione regionale approva. Ma le domande rimangono. Gli specialisti hanno ammesso che casi del genere ricorrono frequentemente – il che fa sospettare che alcune diagnosi siano forzate. La KNMG rifiuta l’accusa di essere “più severa” della legge nazionale, ribattendo che “un fondamento medico” è definizione più larga di una “diagnosi”: può includere una qualsiasi combinazione di sintomi o, in generale, diminuito stato di salute non necessariamente classificabili. Il dibattito continua.

Luca Valerio
Istituto di Sanità pubblica, Amsterdam
da SaluteInternazionale

Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli
Griglia in fondo agli articoli

Related posts

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.