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A.A.A. (Antiche Aziende Abruzzesi) Cercasi. Intervista a Pierluigi Francini proprietario della ditta Luigi D’Amico di Pescara

La nostra regione presenta numerose aziende storiche ricche di tradizione che ancora oggi sono in attività e resistono, nonostante tutto, alle intemperie del Tempo. Il seguente vuole essere il primo di una serie di articoli dedicati alle aziende che hanno fatto e continuano a fare la storia dell’economia e della cultura eno-gastronomica abruzzese. Il nostro viaggio inizia a Pescara, per la precisone nel “Ritrovo del Parrozzo”, secolare bar e pasticceria della città, sita in Viale V. Pepe 41. Il proprietario di questo storico negozio, Pierluigi Francini, è anche il titolare della ditta “Luigi D’Amico”, che si occupa ormai da un secolo della produzione del Dolce per eccellenza della nostra regione: il Parrozzo. Sarà proprio il signor Francini a narrarci, attraverso la seguente intervista, la storia della sua famiglia e della propria azienda.

Signor Francini può raccontarci l’origine e la storia della sua ditta?

L’azienda “Luigi D’Amico” nasce intorno alla metà del XIX secolo, fondata dall’omonimo mercante che commerciava in polvere da sparo, gallette e vino per i soldati, dato che a Pescara era presente una fortezza borbonica, ed anche  in reti e altre attrezzature da pesca, poiché quest’ultima era la principale attività economica della zona. Successivamente suo figlio Biagio fu costretto a cambiare la tipologia delle merci, soprattutto a causa dell’abbandono della fortezza in seguito all’Unità d’Italia, iniziò così ad importare prodotti “fini” come i biscotti dall’Inghilterra, vini, liquori e altra merce dello stesso genere. Con Biagio arriviamo fino alla fine della Prima guerra mondiale, quando gli subentrerà suo figlio Luigi, mio nonno materno, che completò l’ “evoluzione” dell’azienda, aggiungendo la produzione dolciaria alla semplice vendita. Luigi, però, era un imprenditore non un pasticcere, quindi si avvalse della collaborazione di esperti che lo aiutarono nella realizzazione di dolci tipici della tradizione contadina locale. Ma il vero obiettivo di Luigi era quello di creare un prodotto dolciario che potesse essere eretto a simbolo della pasticceria abruzzese e, allo stesso tempo, avere forti legami con le nostre tradizioni culinarie. Nacque così il Parrozzo, prodotto da forno di pasta montata con farina di mandorle grezze e ricoperto di finissimo cioccolato fondente, traente ispirazione da una pagnotta di farina di granturco, tipica dell’alimentazione dei contadini. Dopo mio nonno, alla guida della ditta sono subentrati mia madre e mio padre, poi io e di recente anche mio figlio, che rappresenta la sesta generazione.

E d’Annunzio come entra nella storia del parrozzo?

Naturalmente dopo l’invenzione del Parrozzo era necessario trovare un “testimonial” adatto a rappresentarlo ed è qui che entra in scena d’Annunzio. Data infatti la fama indiscussa a livello nazionale del Vate, mio nonno pensò a lui come “portavoce” del neonato dolce e glielo inviò al Vittoriale, chiedendogli anche la cortesia di “battezzarlo”, visto che fino a quel momento il dolce era ancora privo di un nome. Era il 1926.

Perché mai suo nonno osò così tanto?

Per l’amicizia di suo padre Biagio con il Poeta (erano coetanei ed amici d’infanzia) e per la parentela di quest’ultimo con mia nonna Hilde, moglie di Luigi. Infatti la madre di mia nonna, Teresa Onofri, era cugina ò di primo grado di Gabriele d’Annunzio.Nonostante ciò, mio nonno temeva che non avrebbe risposto. Invece d’Annunzio rispose. Spedì a nonno Luigi un madrigale in dialetto abruzzese, in cui compare per la prima volta la parola “parrozzo”, sintesi di “pane rozzo”, ovvero il pane di farina di gran turco (più “rozza”della “signorile” farina bianca), legato alla tradizione contadinada cui mio nonno aveva tratto ispirazione. Questo fu l’inizio di un lungo carteggio fra il Vate d’Italia ed il Marchese del Parrozzo (così il Poeta aveva affettuosamente soprannominato mio nonno), che durò fino alla morte del Poeta avvenuta nel 1938.

Quando nacque invece il vostro punto vendita, il “Ritrovo del Parrozzo”?

Il 24 luglio del 1927. Mio nonno fondò in Piazza Garibaldi un caffè signorile,chiamato per l’appunto “Il Ritrovo del Parrozzo”, che ben presto divenne luogo d’incontro degli intellettuali di spicco della città e non solo. La sala in cui ci troviamo, come può vedere, è “affrescata” di fotografie, dediche, lettere e altri scritti, che sono lascito degli innumerevoli personaggi illustri, provenienti da tutta Italia, che passarono per il locale di mio nonno: come Enzo Ferrari o Totò. Purtroppo però nel settembre del 1943 le bombe della Seconda guerra mondiale distrussero il “Ritrovo”. Data l’impossibilità di ricostruirlo nello stesso luogo, il locale venne spostato prima in Corso Umberto, nel centro città, e poi, nel 1966, nell’attuale sede, in Viale V. Pepe 41.

Parlando d’altro, è risaputo che ormai il Parrozzo ha valicato i confini nazionali ed è approdato in altri mercati. Dov’è maggiormente richiesto?

Naturalmente perlopiù in zone dove c’è una forte presenza di emigrati abruzzesi, che richiedono e conoscono il prodotto, come ad esempio in Canada e in Australia. In ogni caso stiamo puntando ad allargarci su altri mercati, magari anche laddove la presenza abruzzese non è massiccia.

Quanti “parrozzi” producete annualmente?

All’incirca produciamo 200 mila pezzi di parrozzi grandi e più o meno 3 milioni di parrozzini.

Oltre al parrozzo quali altri dolci producete?

La nostra azienda possiede altri due marchi registrati oltre al parrozzo ed al parrozzino: le Paranzelle e il Dolce Senzanome. Le prime, nate alla fine degli anni ’30, sono dei fragranti pasticcini con burro e farina di riso, trasposizione dolciaria delle gallette di riso che i marinai portavano a bordo delle “paranze” (da qui il loro nome), ovvero delle barche che dovevano avanzare “alla pari”, con rotta parallela e alla stessa andatura, per trascinare, senza pericolo di strappo, la rete da pesca, le cui estremità erano legate alle poppe delle due imbarcazioni. Invece il Dolce Senzanomenon è un prodotto da forno , bensì un impasto a freddo, un po’ come un torrone: si prepara un caramello che tiene insieme la macedonia di frutta e vegetali canditi, la granella di mandorla e la scorza di arancia, di limone e brassica (zucca). Questi è stato creato sul finire del 1935, Luigi D’Amico lo inviò, assieme alla solita fornitura mensile di parrozzo, a D’Annunzio con la speranze che il Poeta potesse assegnargli un nome. Il Vate rispose a mio nonno, il 2 gennaio del 1936, con una letterain cui promise che avrebbe assaggiato il nuovo dolce l’indomani dandogli anche un nome adatto al sapore. Questa volta però d’Annunzio promise ma non mantenne. Alla morte del Poeta, il 1° marzo 1938, la creazione dolciaria era ancora priva di nome: a quel punto mio nonno decise di battezzarla come “Dolce Senzanome”. Certo in apparenza potrebbe sembrare una scelta banale, ma in realtà c’è una motivazione ben precisa.A mio nonno venne in mente ripensando alla lettera di risposta che d’Annunzio gli aveva inviato dicendogli di aver ricevuto sia “dolci con nome (intendendo il parrozzo) che senza nome (riferendosi al nuovo)”, perciò Luigi lo chiamò così, onorando la memoria del Poeta.

Anche voi avete risentito delle conseguenze economiche del Covid-19?

Purtroppo sì. I danni maggiori, naturalmente, li ha subiti il punto vendita. Per quanto riguarda invece la produzione dell’azienda per fortuna non ci sono state molte conseguenze, se non una contenuta diminuzione, dato che abbiamo continuato regolarmente a rifornire i supermercati.

In un mondo oramai dominato dalle multinazionali, quali sono i punti di forza di un’azienda a conduzione familiare come la sua?

Il rispetto della tradizione e la massima cura per la qualità degli ingredienti. Senza dubbio la produttività è importante, ma non può prescindere dalla qualità. Occorre infatti fare le cose per bene, non ha senso produrre di più per aumentare i propri guadagni quando ciò accade a scapito della bontà del prodotto.

Un’ultima domanda: quali sono i vostri piani per il futuro?

Sicuramente cercare di mantenere e aumentare la presenza dei nostri prodotti nei punti vendita più qualificati; inoltre, come ho detto poco fa, vorremmo mirare ad espanderci in altri mercati, come ad esempio il Medio Oriente ed i Paesi arabi.

Se mi permette vorrei concludere dicendo che al di là di qualsiasi profitto (che è comunque importante), quello che più  conta è essere soddisfatti di se stessi e del proprio lavoro. Insomma la propria soddisfazione è una sorta di “bene immateriale” che deve essere sempre presente in ogni iniziativa che si decide di intraprendere.

Cesare Vicoli

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