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Olimpiadi di Tokya, breve storia dello sport del Sol Levante: dal Sumo alle “Nadeshiko”

Il 23 luglio, a Tokyo, si è tenuta la cerimonia d’apertura della XXXII edizione dei Giochi Olimpici moderni. Questa è la seconda volta che il “Sacro Fuoco di Olimpia” giunge nella capitale del Sol Levante, dopo l’edizione del 1964. Ma qual è il rapporto fra lo sport ed il Giappone? Quanto è stata influente la cultura nipponica sullo sport occidentale? Quanto, invece, i giapponesi hanno preso da noi? I nipponici considerano lo sport una parte fondamentale della propria cultura.

Per questo quasi tutte le scuole in Giappone possiedono dei club giovanili, per consentire ai ragazzi di praticare le discipline che preferiscono, anche a livello regionale e nazionale. Lo sport per eccellenza del Sol Levante è il sumo, le cui origini risalgono addirittura al VI secolo.

Derivante da antichi riti della religione scintoista e nato come sport organizzato già a partire dal Seicento, il sumo oggi è la disciplina agonistica maggiormente seguita in Giappone. Anche se i “rishiki” (“lottatori di sumo”) sono molto meno retribuiti dei calciatori e dei giocatori di baseball, altri due sport seguitissimi dai nipponici, questa arte marziale rimane una carriera sportiva molto prestigiosa.

Il sumo, però, non ha avuto molta fortuna all’estero. Infatti tutt’oggi la maggior parte degli atleti dell’ISF (“International Sumo Federation”), salvo rarissime eccezioni, sono di origine giapponese ed i principali tornei di questa disciplina si tengono tutti nell’arcipelago nipponico. Altre arti marziali originarie del Sol Levante, invece, sono riuscite ad “approdare” con successo in Occidente e nel resto del globo.

Fra queste il judo riscuote attualmente molto successo in tutto il mondo, tanto da essere considerato una delle arti marziali più praticate ed amate di sempre. Esso ha goduto di una grande fama a livello internazionale già dagli inizi del Novecento. Difatti dopo secoli di isolamento politico, economico e culturale, intorno alla metà dell’Ottocento, l’Impero giapponese iniziò ad aprirsi al mondo, importando ed esportando tradizioni, costumi, usanze e, naturalmente, anche discipline sportive.

Il judo, nato ufficialmente nel 1882, affascinò fin da subito gli occidentali, tanto che le marine militari di molti paesi cominciarono ad insegnarlo ai cadetti come alternativa ai tradizionali stili di lotta europei (libera e greco-romana). Fu proprio grazie alla “Regia Marina” che, nel 1905, questo sport nipponico giunse in Italia con il nome di “lotta giapponese”.

Il judo, inoltre, è una delle tre arti marziali inserite all’interno dei Giochi Olimpici. Fece il suo esordio “in casa”,  alle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Il comitato olimpico giapponese insistette molto per rendere il judo una disciplina olimpica in tempo per i Giochi di Tokyo.

Infatti il loro obiettivo era quello di poter avere uno sport in cui gli atleti nipponici avrebbero potuto vincere facilmente, per riscattare così il Paese dopo il tragico epilogo della seconda guerra mondiale. Tutti si aspettavano che in questa gara avrebbe trionfato un giapponese, per la precisione Akio Kaminaga, il favorito assoluto per l’oro. Invece la sorte volle che a vincere il torneo olimpico di judo del 1964 fosse l’olandese  Anton Geesink, un vero e proprio gigante alto due metri e pesante centoventi kilogrammi.

In finale Geesink riuscì a battere proprio Kaminaga, molto più minuto di lui, dopo soli nove minuti di gara, e a conquistare il primo posto. Tale esito fu un vero e proprio smacco per il Sol Levante, che già pregustava la medaglia d’oro nello sport che lo rappresentava più di tutti alle Olimpiadi. Inoltre questa sconfitta fu un colpo durissimo per il povero Akio Kaminaga, che si ritrovò a passare dall’essere un eroe nazionale amato da tutti, al divenire il capro espiatorio della disfatta nipponica. Purtroppo per tal motivo finì per cadere in depressione e si riprese solo dopo molto tempo.

Ma, nonostante questa disavventura, il Giappone riuscì ugualmente ad ottenere un grande successo agonistico ai Giochi Olimpici “casalinghi”. Difatti i nipponici trionfarono in una competizione a cui pochissimi, all’epoca, davano importanza: la pallavolo femminile. Anche la pallavolo esordì alle Olimpiadi nel corso dei Giochi di Tokyo e, a differenza del judo, fin da subito fu prevista la categoria femminile. Le pallavoliste giapponesi, allenate dal C.T. Hirofumi Daimatsu e reduci dalla vittoria ai mondiali del 1962, stupirono tutti nel torneo olimpico, guadagnandosi il soprannome di “Toyo no majo” (“Le streghe d’Oriente”).

Queste giovani campionesse arrivarono facilmente in finale, dove batterono le fortissime sovietiche. Il loro trionfo trascese la semplice vittoria agonistica. Difatti esso da una parte segnò la rinascita culturale e sportiva del Sol Levante dopo l’oblio post-bellico, dall’altra decretò l’inizio dell’emancipazione femminile in Giappone, paese tradizionalmente molto patriarcale.

Generazioni di ragazze nipponiche sono vissute ammirando le gesta delle “Toyo no mayo”, che spinsero molte giovani a lasciare il segno nella società. Per non parlare poi dell’enorme influenza che l’impresa sportiva delle ragazze di Daimatsu ebbe sulla cultura nipponica. Fu proprio l’epopea di quella squadra ad ispirare il celeberrimo manga (fumetto giapponese) “Attacker You!”, da noi conosciuto come “Mila e Shiro- Due cuori nella pallavolo” (1984-1985). Oltre la pallavolo, altri sport “stranieri”, nel corso dei decenni, sono entrati nel costume giapponese, appassionando ed intrattenendo l’intero popolo del Sol Levante.

Come detto il calcio ed il baseball sono discipline amatissime e molto seguite in Giappone. Il calcio, poi, con il passare del tempo è diventato il secondo sport più seguito del Sol Levante, subito dopo il già menzionato sumo, nonché un fenomeno di grande impatto culturale. Tant’è vero che nel 1981, sull’onda emozionale dei Mondiali di Calcio del 1978, Yōichi Takahashi creò il manga “Capitan Tsubasa” (ovvero “Holly e Benji”), in cui immaginò una nazionale nipponica così forte da poter vincere la Coppa del Mondo.

Il suo sogno, all’epoca giudicato a dir poco utopistico ed assurdo, si realizzò esattamente trent’anni dopo. Infatti nel 2011, dopo il disastroso tsunami che devastò il Giappone nordorientale mietendo più di quindicimila vittime, la nazionale di calcio femminile nipponica si presentò ai Mondiali di Germania con il cuore pieno di orgoglio, commozione, speranza e voglia di ricominciare a vivere.

Le giovani giapponesi, guidate dal C.T. Norio Sasaki, fecero un percorso incredibile, arrivando in finale dove sconfissero la selezione statunitense ai rigori. Questo straordinario successo riempì di gioia l’intero popolo giapponese, riuscendo ad alleviare, anche se di poco, le sofferenze per il suddetto disastro naturale. Le calciatrici nipponiche, per la loro tenacia ed il loro spirito di squadra, si guadagnarono il soprannome di “Nadeshiko” (cioè “Fiori di garofano”), che richiama l’espressione “Yamato Nadeshiko”, ovverosia la personificazione della donna ideale secondo la tradizione del Sol Levante.

Ma se in precedenza questo epiteto era legato al patriarcalismo giapponese, ora invece, proprio grazie alle ragazze di Sasaki, ha assunto un tutt’altro significato. Infatti la storia delle “Nadeshiko” incarna appieno la forza di volontà ed il coraggio, capaci di far superare agli esseri umani qualsiasi avversità. Si chiude così questo “viaggio” attraverso la cultura e gli sport nipponici. La speranza è che le Olimpiadi di quest’anno possano regalare altri momenti storici e facciano riacquistare a tutti il desiderio di continuare a sognare e a combattere contro le difficoltà della vita.

Cesare Vicoli

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