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“Finis litoris”. Istoriole di terra e di mare

Diamine! «Senza titolo» per una foto che «Senza titolo» non è! Ma come non è forse l’effetto di una sapiente miscela di ingredienti dovuta a un cuoco particolare stellato – il mare – che, in “bagnomaria”, è riuscito a combinare su di un piano di cottura speciale – la spiaggia – una ghiottoneria ricavata da «lu rujuìttǝ» la cui denominazione potrebbe essere «Frammento di argano tra legni ricoperto da un cesto di canne»? (fig.1). E non forse vero che l’esaltazione di tali sapori iconografici va ricondotta al fotografo che è riuscito a impressionarla su di un bianco e nero di rara efficacia? Magari qualcuno potrà dire che si era trattato del lavoro compiuto dal mio vecchio amico Gino Baccalà che, con una singolare sgorbia da scultore, assemblava in forme variegatissime i segni de «lu rujuìttǝ». D’accordo. Ma anche qui, grazie a una semiotica «d’antan», Piero Giancola ci restituisce il senso di pratiche umane scomparse dalla vita odierna (fig2). In ogni caso, si può anche dare il caso che «lu rujuìttǝ» del mare possa generare un’arte raffinatissima contemporanea. E, sempre qui, l’“inventio” di Giuseppe Muzii apre lo sguardo alla magica rappresentazione di una barca sul mare con legnetti naufraghi spiaggiati dallo stesso mare (fig.3. Collezione privata). Insomma, una sorta di immagine dentro la stessa immagine. È stato il filosofo Edmund Husserl a sottolineare nelle sue “Ricerche logiche che
«Noi non vogliamo affatto contentarci di ‘pure e semplici parole’, cioè di una comprensione simbolica delle parole […] Non ci possono bastare i significati ravvivati da intuizioni lontane e confuse, da intuizioni indirette – quando sono almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare alle cose stesse”.
Ecco allora il tema decisivo: «Tornare alle cose stesse». Da questo punto di vista, Giancola ha documentato “le cose stesse”. Muzii le ha trasformate in arte. Si tratta ora di affrontare la relazione di queste «res» tra presente e passato.
Da quando, purtroppo, il rapporto terra/mare è mutato, trasformandosi in mare/concessioni nessuno potrà avere più occasione di assaporare quegli ingredienti ormai spariti grazie all’efficiente lavoro dei becchini dell’arenile che provvedono al disseppellimento di ingredienti disgustosi (“horribile dictu”) come le carcasse di legnami naufraghi. Sicché, una volta bonificata la spiaggia centrale, resta solo il litorale sud, a partire dall’area in foce del vallone S. Tommaso dove possenti dune (fig. 4) consentono sull’arenile lo habitat di Vulpia membranacea (fig.5) e Spartina juncea (fig. 6), e dove l’ambiente retrostante consente l’esistenza di un bosco di pini con querce arbustive (fig. 7) nel quale ho raccolto ghiande per degustare un piatto particolarissimo in una sessione della Delegazione di Vasto dell’Accademia Italiana della Cucina. Aggiungo che la Pineta in questione ha compiuto quest’anno un secolo essendo stata impiantata dalla Cattedra di Agricoltura di Vasto nel marzo del 1922. Che cosa dire! Un mondo superstite che, confrontato con arcaici bianco e nero, consente di comprendere l’antica funzione economico-sociale dei luoghi in questione.
Proviamo intanto a vedere la cartolina illustrata di fine Ottocento con la didascalia turistica allora invitante per quanti si interessavano a ciò che in quel tempo veniva chiamato “folklore”: «Vasto – Il ritorno dalla fiera» (fig. Solo folklore! Ma perché questi contadini di oltre centoventi anni fa con vacche e cavalli al seguito si sarebbero dovuti recare sulla spiaggia. Per fare una foto? Forse. Ma non sarebbe stato più verosimile pensare che gli animali da trasporto, avendo bisogno di un’abbondante pastura, potevano trovare l’ottima vegetazione dunale da sempre destinata ai ruminanti? Nei fatti, la stessa utilizzata da tutti i possessori di “vetture” in città. Del resto, perché mai i pastori delle pecore transumanti avrebbero dovuto abbandonare il percorso tratturale alla Selvotta per menare il gregge lungo l’arenile (fig.9)? Non era forse per destinare alle torme lanose una succulenta pastura di piante marittime cresciute all’ombra della complessa “silva pastilis” marittima? E la spiaggia? Non doveva forse restare libera per garantire la pesca a strascico con la sciabica su fondali sabbiosi (fig.10), per il ricovero delle barche dopo la pescata quotidiana (fig.11) o per consentire ai portatori d’acqua il pieno d’acqua marina nelle botti (in assenza di un acquedotto utile per tale funzione) da destinare all’impasto delle malte edilizie? Che dire di più! L’uso libero del demanio per le attività lavorative. Al punto da insediare la stessa prima area industriale della città nelle prossimità del Fosso del Ponte Marino con lo scopo preciso di smaltire liberamente i liquami delle industrie. È noto il caso della Cornello e Spangher che riversava nel vallone sansa e solfuri galleggiati nella padula della marina. Il fetore era tale che lamentele al settimanale «Istonio» (n. 15, 9-10 agosto 1903) chiedevano quanto meno l’intervento dei titolari per arginare la puteolenza (fig. 12). Non ne conosciamo l’esito. E ciò prima della legge sul Paesaggio del 1922 voluta dall’allora ministro Benedetto Croce. Nei fatti, la libertà ergologica era tale che la spiaggia incontrava lo scontro tra pesca-agricoltura e industria un mix mai definitivamente risolto. Va detto, però, che l’arenile garantiva, malgrado gli opposti interessi, il libero rapporto terra-mare con l’aggiunta della stessa attività balneare. Le ragioni privatizzanti di quest’ultima hanno oggi sconfitto la terra. Resta solo il mare. Che malgrado la pervicace volontà dei privatizzatori, data la sua natura liquida, non potrà mai avere padroni.
di Luigi Murolo
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