Baciala e alzala, Lionel, alzala al cielo. Alza la Coppa e mostrala al mondo e agli italiani d’Argentina che siamo sempre stati e che mai, dico mai, avremmo potuto tifare Francia, la pur splendida Francia di Mbappé. Il sogno che ti mancava si è avverato, ora la distanza con Maradona è nulla, Maradona sei tu, la continuità del divino sceso in terra, l’arte nobile di accarezzare la palla con lo stesso piede (ma è davvero un piede quel sinistro magico?), di puntare l’avversario e dribblarlo con lo sguardo, di mettere il compagno davanti alla porta e dirgli: devi solo spingerla dentro, come hai fatto con Alvarez, com’era scritto sul cross di Conti a Rossi nella semifinale contro la Polonia.
Doha ha i colori di Baires, gli argentini e gli italiani d’Argentina, che è lo stesso, anche questa volta piangono, ma sono pianti di gioia (vero, Di Maria?), le lacrime legate al destino di quella pelota che rotola, rotola, rotola e mischia i sentimenti più puri agli ardori più brucianti, unisce il ricco e il povero, il sobrio e l’ubriaco, le bandiere che sventolano hanno il sapore antico di una rivincita contro un mondo altro, borioso e sazio, un mondo distratto verso chi è rimasto indietro nella corsa per la vita.
Ci vorrebbe Borges per raccontare questo trionfo o forse Arpino, che nel 1978 a Baires lasciò un pezzo del suo cuore. Ci vorrebbe una fantasia diversa, alta, superiore, un colpo di genio, per raccontare di un genio e di tanti giocatori che accanto al genio, nutrendosi del genio, hanno spento la lampada transalpina e invitato Macron a rimettere in tasca il pugno che aveva orgogliosamente esibito contro il Marocco.
La favola dell’Albiceleste si rinnova e trasmette alla tribù del calcio un messaggio nuovo, il messaggio di non sacrificare mai il genio, di non cercare di limitarlo con schemi e schemini. Il genio non si imbriglia, il genio non si arresta. Sono anni che, da più parti, si ripete a Messi che sì, lui è grande, grandissimo, ha segnato tanto, ha vinto tanto, ha accumulato Palloni d’oro, però non ha mai vinto un Mondiale. Quella macchia faceva di lui comunque un grande, ma sempre secondo al più grande, all’irraggiungibile: Diego Armando Maradona. Oggi, sotto il cielo di Doha, i due si sono toccati e abbracciati, finendo per coincidere.
Piange Mbappè, piange la Francia, piangono i Campi Elisi e non sono lacrime di gioia. La grandeur è argentina, l’Argentina è sul tetto del mondo, le tre bande orizzontali della sua bandiera, due celesti e una bianca, avvolgono i corpi di due nazioni. E il Papa, il più celebre degli italiani d’Argentina, sorride, esulta e pregusta il più dolce e commovente dei Natali.
“Oggi essere italiani è più bello”, scrisse Giorgio Tosatti dopo la nostra vittoria in Spagna nel 1982. Oggi essere argentini e italiani d’Argentina, che è lo stesso, è immensamente più bello.
Tutto questo fino al minuto 79. Poi, siccome il calcio, non il tennis, è stato inventato dal diavolo, la musica cambia improvvisamente. Scaloni si priva di Di Maria senza un perché, Deschamps indovina i cambi, Mbappé trasforma un rigore e pareggia con un tiro che trafigge il portiere argentino e i sogni di gloria di un popolo che pensava di aver vinto. Il calcio è un mistero senza fine bello, ha detto Brera parafrasando Gozzano, e i supplementari diventano il presagio di una tragedia. Sembra morta, l’Argentina, ma è ancora Messi al minuto 108 a raccogliere una respinta di Lloris su tiro di Lautaro, subentrato ad Alvarez. Non ci sono i rigori. Non è vero. I rigori ci sono, poiché proprio su rigore al 117 pareggia Mbappé. Il sangue sudamericano, di norma caldissimo, diviene freddissimo. Vince l’Argentina!
Baciala e alzala, Lionel, alzala al cielo. Alza la Coppa e mostrala al mondo e agli italiani d’Argentina che siamo sempre stati e che mai, dico mai, avremmo potuto tifare Francia, la pur splendida Francia di Mbappé.
Davide D’Alessandro
tratto da huffingtonpost.it
foto ansa