Duemilasettecentoventotto imprese artigiane in meno dal 2018 ad oggi. E’ il bilancio tutt’altro che lusinghiero dell’Abruzzo, regione che in Italia, Marche a parte, vanta la peggiore performance dell’ultimo quinquennio. A mettere nero su bianco i dettagli di questa debacle è il report realizzato per la CNA Imprenditori d’Italia Abruzzo da Aldo Ronci, su dati tratti dal sito movimprese.it presentato questa mattina nel corso di una conferenza stampa cui prendono parte, con l’autore, il presidente e il direttore della confederazione artigiana, Savino Saraceni e Silvio Calice. Alla fine di dicembre del 2018 – e veniamo così ai numeri descritti nello studio – le imprese artigiane attive erano in Abruzzo 29.896, scese a fine dicembre del 2023 a 27.168, con ben 2.728 unità in meno. Dati che le percentuali spiegano, se possibile, anche meglio: la variazione negativa regionale, pari al -9,12%, ha infatti un valore quasi triplo di quella nazionale, ferma al -3,25%. Una flessione impressionante che ha visto fare di peggio, come detto, solo le vicine Marche, con una perdita a doppia cifra: -11,56%.
«Ed è come se ogni anno il nostro territorio avesse visto la chiusura di una fabbrica con 1.300 addetti – commenta Silvio Calice – senza contare i danni provocati in termini di coesione sociale, territoriale e previdenziale. Certo, alla flessione concorrono anche fattori giuridici: le norme tutelano di più le società di capitali rispetto all’artigianato, fatto questo che ne spinge molti a cambiare natura giuridica. Ma la spiegazione sta soprattutto nella mancanza di politiche attive a favore delle micro imprese. La Regione ha competenza esclusiva in materia di artigianato, eppure di una buona legge regionale in vigore da anni resta sin qui applicata solo la prima parte burocratica, non la seconda che contiene norme importanti sulle politiche attive legate a trasmissione d’impresa o altre misure attive. E quanto a grandi progetti come il PNRR, anche lì non è previsto nulla a favore del settore».
Tornando ai numeri, tra le province le variazioni in negativo dei numeri dell’artigianato sono state disomogenee: le cadute più pesanti si sono verificate a Pescara (‐861) e a Chieti (‐750), un po’ più lievi a all’Aquila (‐560) e a Teramo (‐557). Quanto invece ai comparti produttivi, le flessioni hanno investito tutte le attività economiche: la più eclatante, forse a sorpresa, arriva dalle costruzioni, che hanno segnato 926 unità in meno, cifra assoluta corrispondente a una perdita, in percentuale, di 15 volte superiore a quella nazionale (‐8,96% contro 0,59%). Quanto alle attività manifatturiere e ai trasporti, questi settori segnano decrementi rispettivamente di 895 e 304 unità: nel caso del manifatturiero, le perdite più significative si sono verificate, nel campo alimentare (‐177), nei prodotti in metallo (‐120) e nell’abbigliamento (‐106).
Questa drastica caduta del mondo delle micro e piccola impresa chiama evidentemente in causa più fattori ed elementi: le politiche in materia di accesso al credito; di contenimento dei costi per l’energia; di stimolo all’internazionalizzazione e alla digitalizzazione; sulla trasmissione d’impresa; sulla formazione professionale. Aree che pongono in discussione ancora una volta le scelte della Regione, che in materia di artigianato vanta competenza esclusiva. «Questi dati negativi – dice Savino Saraceni – vengono da ancor prima il 2018. Quando un artigiano arriva alla chiusura, vuol dire che le ha provate davvero tutte prima di arrendersi. Ecco, noi vorremmo dalla politica scelte in grado di invertire questa tendenza, un cambio di passo in fatto di metodo: deve crescere il valore della concertazione con il mondo delle imprese e delle loro associazioni, per favorire scelte capaci di aggredire queste tendenze negative».