lunedì, Agosto 18

Intervista a Karima: “Non ho fatto niente che non rispecchiasse il mio sentire”

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Il 14 agosto nei Giardini di Palazzo d’Avalos si è tenuto il concerto “Karima, omaggio a Burt Bacharach“, nell’ambito della rassegna “Vasto in Jazz“, serata resa possibile grazie all’associazione Livemusic e al suo direttore artistico Lino Molino, che da quattro anni, insieme all’Assessore al Turismo e alla Cultura del Comune di Vasto, Nicola Della Gatta, sostengono fortemente questo progetto.

Grazie a questo evento abbiamo avuto la possibilità di accogliere a Vasto una voce calda e unica come quella di Karima. Partecipante della sesta edizione di Amici, ha conquistato il grande pubblico italiano e internazionale, esibendosi sul palco dell’Ariston e sfoggiando, nella sua carriera, numerose collaborazioni di prestigio come quella con il celebre compositore Burt Bacharach.

Conosciamo insieme questa meravigliosa artista.

Karima, partiamo dal principio. Avevi appena 21 anni quando sei entrata nella scuola di Amici. Che ricordi hai di quell’esperienza? Quanto ha pesato nella costruzione della tua identità artistica?

Sono passati ormai vent’anni e, come hai detto tu, ero una ragazzina. Credo che quelle fossero le edizioni più belle, perché si partecipava senza sapere cosa sarebbe successo dopo l’esperienza televisiva. Oggi, invece, molti vanno ad Amici perché sanno già che dopo c’è quasi “di default” Sanremo, una casa discografica pronta a produrli… insomma, è cambiato molto.
Penso che la mia sia stata proprio l’ultima edizione in cui tutti facevano tutto: io cantavo, recitavo, ballavo.

Poi quella fase credo sia finita proprio col mio anno, che era il sesto. Ora siamo quasi al ventiseiesimo, quindi il programma si è trasformato tanto. Personalmente lo preferivo com’era all’inizio, perché era davvero incentrato sugli allievi. Col tempo, invece, l’attenzione si è spostata sempre più sugli insegnanti, che sembrano gareggiare tra loro usando i propri allievi come “cavalli da corsa”. Questa cosa non mi è piaciuta molto: lo apprezzavo di più prima.

E secondo te, oggi Amici rappresenta ancora un trampolino di lancio, o è più soltanto una vetrina rispetto a prima?

Secondo me, prima era più una vetrina. Oggi è una vera e propria opportunità perché chi vuole fare il cantante sa che partecipando ottiene visibilità e contatti diretti con le case discografiche. Il passaggio è molto più immediato.

Dopo Amici hai avuto l’opportunità di lavorare con una leggenda come Burt Bacharach. Ci racconti com’è nata questa collaborazione?

È nata grazie al mio produttore di allora, Mimmo D’Alessandro, della D’Alessandro & Galli, la famosa agenzia che porta in Italia molti artisti stranieri. Senza dirmi nulla, mi organizzò un incontro con Bacharach a Roma, nell’ottobre 2008. Lui pensava che io non lo conoscessi, perché ero troppo giovane, ma in realtà lo conoscevo benissimo: già cantavo le sue canzoni, il suo repertorio. Per me è stato come coronare un sogno. E da lì è nato un lavoro durato un paio di anni, tra l’Italia e l’America. È stata un’esperienza meravigliosa.

Cosa ti ha lasciato, artisticamente e umanamente?

Penso che insieme a Ennio Morricone, Burt Bacharach sia uno dei più grandi compositori di sempre. Mi ha insegnato che chi è davvero “qualcuno” non ha bisogno di dimostrare nulla.

Trovarsi in tour con Bart Bacharach, a 24 anni, ti porta ad avere una sorta di ricerca della perfezione che in realtà diventa poi un freno, un limite. Una volta, dopo un live in cui ero molto emozionata, lui mi disse: “Guarda che a me non devi dimostrare niente, ho già capito chi sei. Non serve che ogni volta tu canti meglio della precedente. Quello che fai è già sufficiente per essere una grande artista. Non devi dimostrare nulla, né a me, né al pubblico, né a te stessa. Rilassati, keep calm”.

Ho avuto la stessa sensazione lavorando con cantautori come Nino Buonocore, Fabio Concato e Ron, con il quale ho fatto un live due settimane fa: più sono artisticamente immensi e più sono umili; invece, più artisticamente non hanno niente da dire, più se la tirano.

Il tuo timbro vocale è stato spesso associato al soul e al jazz, ma hai dimostrato grande versatilità: da Sanremo alla Disney. Come scegli i tuoi progetti? C’è un filo conduttore che ti guida?

Sicuramente cerco di fare ciò che mi rappresenta. Ad esempio, dopo Amici mi proposero dei musical come Footloose, ma io non ho fatto niente che non rispecchiasse il mio sentire, quindi chiaramente dicendo anche dei no. Certo, così ho scelto una strada un po’ più tortuosa, ma è quella che mi ha permesso di essere oggi quello che sono. Rifarei mille volte queste scelte.

Quello che faccio è quindi sì, quello che mi piace, ma è anche quello che viene scelto dagli altri. Il disco in italiano l’ho fatto perché nei miei live, negli ultimi 3-4 anni, avevo iniziato a inserire brani italiani e, dall’entusiasmo del pubblico, quando cantavo in italiano, ho capito che quella era la direzione che dovevo seguire per il disco successivo. 

Spesso hai dato voce a personaggi animati o doppiato canzoni. Cosa cambia per te quando canti come te stessa rispetto a quando interpreti un altro personaggio?

È veramente diverso, completamente diverso. Molti pensano che per il cantante, siccome è abituato a cantare, sia facile fare questa esperienza, ma non è assolutamente così. È molto più difficile perché il cantante, avendo una personalità, deve tenerala a bada se deve interpretare qualcun altro. Per un attore abituato a interpretare ruoli diversi è molto più semplice.
Ad esempio, a Tale e Quale era difficilissimo perché ogni volta che interpretavo un cantante ogni tanto usciva la “Karima” che dovevo frenare. 

E invece, per quanto riguarda ad esempio la Principessa Ranocchio,  sono rimasta me stessa, con il mio sound, ma ho dovuto plasmare la mia voce affinché si adattasse al ruolo. In questo è stato fondamentale l’insegnamento di Brancucci, che mi ha diretto nella Walt Disney per la realizzazione di questo lavoro. Mi disse che dovevo ricordarmi che stavo cantando per dei bambini e quindi dovevo addolcire il mio suono, mantenere la mia identità ma sempre con un “sorriso”  nella voce, in modo che non fosse troppo prorompente. 

Recentemente hai portato la tua musica in Cina. Com’è nato questo progetto? Che accoglienza hai trovato?

Il pubblico cinese, specialmente quello di Shanghai, è molto curioso e accogliente al contrario di noi italiani che molto spesso, davanti a un artista sconosciuto, la prima reazione che hanno è “Ma chi è questo? Perché dovrei ascoltarlo?”. Lì invece accolgono il nuovo con grande entusiasmo. È un pubblico che però che deve ancora essere educato al jazz ma noi ci stiamo provando. 

E hai dovuto adattare la tua musica o ti sei presentata così come sei?

Sono rimasta esattamente me stessa, con la mia musica e il mio stile.

Un’ultima domanda: nella musica italiana le donne soul e jazz spesso faticano a trovare spazio. Ti sei mai sentita “fuori posto” nel panorama discografico?

All’estero ho sempre ricevuto un’accoglienza più calorosa. Per esempio sono stata la scorsa settimana in Serbia, a Novi Sad, e in Montenegro e lì ho un’accoglienza del tutto diversa. In Italia non è che non piaccio ma la situazione è diversa. Il pregiudizio più grande è stato che, venendo dalla televisione e dal pop, il mondo del jazz non vedeva di buon occhio il mio passaggio, anche se in realtà già prima di Amici cantavo jazz. Poi, però, la carta canta, il pubblico arrivava e nel jazz ci stavo bene.

Poi io non mi definisco una cantante jazz, mi definisco sicuramente una cantante versatile, un po’ più crossover. Perché avendo avuto comunque una pagina importante nell’hip hop, ma adesso da più di 10 anni ho ormai una pagina importante anche nel genere, tra la televisione, il jazz e il doppiaggio, cerco di di far vivere la mia artisticità a 360 °. È una concezione, secondo me, americana del tutti possono far tutto. Qua invece invece è molto più ristretta: un cantante di jazz fa solo jazz se sa fare solo quello. Ma io credo che se hai degli altri spunti è importante dar voce anche a quelli, esplorare un pò.

Stefania Capuano

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